IL TEMPO ESCATOLOGICO di Luigi Nardi
Éschaton, che nella direzione dello spazio significa lontano e nella direzione del tempo significa ultimo, è la forma superlativa di ek, ex che significano fuori. L’éschaton è dunque ciò che è fuori portata, Non è nelle mani dell’uomo che può abitare solo il tempo progettuale, non è nelle espressioni della natura che non conosce una fine perché la sua ciclicità percorre il ritorno. Questo tempo, in versione religiosa, è il tempo di Dio, in versione atea è il tempo dell’utopia e della rivoluzione. In comune queste versioni sono percorse dalla convinzione che la storia dell’uomo abbia un senso o già scritto all’origine del tempo o da realizzare col tempo. Ciò che inaugurano è una temporalità che si ribella all’insignificanza della ciclicità della natura e alla brevità della progettualità dell’individuo.
Rispetto al tempo ciclico, dove il fine era espresso dalla fine, nel tempo escatologico è la fine a far apparire in tutta luce il fine di tutto ciò che è apparso nel tempo. In vista del fine che apparirà alla fine la prospettiva escatologica conferisce al tempo quella dimensione qualitativa che trasforma il puro divenire in storia. Guardare il tempo come storia è possibile solo se già si è ospitati dalla prospettiva escatologica, dove il primato del fine sulla fine irradia sul tempo la figura del senso. Alla fine si adempie ciò che all’inizio era stato voluto.
Come tempo della fine l’éschaton è apocalisse. Apo-kalúpto significa dis-occultare, svelare il celato. La radice kel, da cui il cielo latino significa: occulto, copro, nascondo. L’apocalisse svela il senso rimasto occulto nel divenire del tempo e, svelandolo, fa nascere la storia che dunque è un evento dell’ultimo giorno. Non c’è storia prima dell’apocalisse, prima dell’éschaton, prima dell’ultimo giorno, perché prima il senso non è svelato. La storia nasce il giorno in cui si conclude.
Inaugurando il punto di vista della fine, l’éschaton inaugura una temporalità che è assoluto futuro, un futuro che non dipende dall’uomo, ma che irradia sul tempo dell’uomo i tratti della colpa o comunque della negatività. Non c’è mitologia che non abbia il bene tutto all’inizio e viva il presente come nostalgia e come attesa. Nostalgia è parola greca che dice il dolore (álgos) del ritorno (nóstos); non si tratta del ritorno ciclico della natura, ma del ritorno in patria. Àlgos, come intensivo di légo, dice che solo quando si sarà approdati in patria ci sarà comprensione (lógos) del lungo itinerare, prima c’è solo il dolore dell’attesa.
Le mitologie primitive leggono il tempo a partire da un paradiso perduto e in attesa di un possibile ritorno in cui prende figura la salvezza. Rispetto all’éschaton, il télos perde il suo carattere di svolgimento ciclico, e lo skopós il suo carattere di proponimento, in quanto ciò che si compie è già da sempre predisposto. Se con il tempo progettuale l’uomo ha cercato di strappare alla natura briciole di senso, col tempo escatologico pretende la totalità del senso, ma in questa pretesa sta la sua sconfitta perché, in chiave escatologica, il tempo non è più dell’uomo ma di Dio. Per questo l’éschaton è la fine del mondo, la fine dello spazio e del tempo umano. Alla figurazione escatologica del tempo appartengono la scienza, l’utopia e la rivoluzione, ciascuna con le sue varianti, determinate dal diverso modo con cui le figurazioni del tempo si contaminano tra loro correggendosi reciprocamente.
La scienza moderna porta a compimento il dominio della natura sottraendolo a Dio che, essendo sempre meno accessibile alla ragione, finisce con l’essere sempre più confinato nella fede. Prendendo il posto di Dio, la ragione diventa legislatrice, non «impara» dalla natura, come succedeva quando la natura era considerata il disegno dispiegato di Dio, ma obbliga la natura a rispondere alle sue interrogazioni. In questo modo la natura non ha in sé alcun senso se non quello che assume all’interno del progetto umano che tende a fame un fondo a disposizione dell’uomo.
Come nell’éschaton, con la scienza nasce una storia che ha il suo sigillo nel progresso e nella crescita e il suo senso nel dominio dell’uomo sulla natura. Parlare di progresso significa infatti aver abbandonato la temporalità ciclica che, se mai, conosce solo lo sviluppo, fino a quella svolta da cui prende avvio il ritorno. Il progresso si afferma come skopós, ma qui lo scopo non vive il breve respiro del kairós, dell’opportunità, ma il grande respiro della crescita eretta a senso della storia. Allora valenze escatologiche si abbattono sugli scopi, e nasce l’interrogazione: a che scopo progredire per progredire?
Ma quando lo scopo va oltre il breve tragitto compreso tra il passato recente e l’immediato futuro, per porsi come senso della storia, nasce l’utopia come intenzione della volontà su tutta la natura. Non a caso lo spirito dell’utopia, con Moro, Bacone, Campanella, nasce col sorgere della scienza moderna, dove si fa chiaro che conoscere significa non più contemplare, come quando il tempo era ciclico, ma dominare. All’epoca, però, era troppa la distanza tra i mezzi dati e i fini, per cui non c’era nessun luogo (u-topia) in cui il progetto poteva realizzarsi. L’utopia è allora quel non-luogo come proiezione infinita di un’estrema possibilità. Quanto bastava perché il progettare divenisse la forma della storia, non nel senso di realizzare questo o quel progetto, ma di instaurare la progettualità come senso e forma del tempo. lo skopós, così divinizzato, assume i caratteri dell’éschaton, e oggi è nei risultati di questa infmita progettazione che gli uomini scorgono tanto la salvezza quanto l’apocalisse.
Il modo di pensare è ancora religioso e si nutre delle figure laicizzate del tempo escatologico. Nello spirito dell’utopia la triade religiosa: colpa, redenzione, salvezza, trova la sua riformulazione in quell’omologa prospettiva dove il passato appare come malattia, la scienza come redenzione, il progresso come salvezza. L’utopia guarda al futuro con un’etica terapeutica dove i mali si eliminano tramite il controllo razionale degli effetti.
Al tempo escatologico è legata anche l’idea di rivoluzione che alla fine prevede un rovesciamento dal dominio del male a quello del bene, da questo tempo a un altro tempo. Forse per questo dopo tutte le rivoluzioni s’è sentito il bisogno di dare il via a nuovi calendari, a una nuova misurazione del tempo, perché, a differenza dell’utopia che ha bisogno di tanto futuro, la rivoluzione prende fuoco per un altro futuro.
Se l’onnipotenza è la chiave dell’éschaton, quella dell’utopia ha un carattere progressivo nell’ordine del tempo e nella determinazione degli scopi, mentre quella della rivoluzione ha un carattere esplosivo perché segna un’accelerazione del tempo verso la fine, per l’irruzione dell’elemento salvifico e risolutore. Se nell’utopia il tempo escatologico è cadenzato dal tempo progettuale, nella rivoluzione la progettualità è dissolta nell’apocalisse dell’éschaton come rivelazione totale di quanto era stato finora celato, e inaugurazione di un mondo nuovo a partire dalla rivelazione avvenuta.
Gli esempi qui introdotti mostrano come non si possa parlare di una realtà del tempo, ma solo di figure che, intrecciandosi in vario modo, generano quelle rappresentazioni e quei sentimenti del tempo che di epoca in epoca caratterizzano il nostro modo di abitare la terra.
Si chiede allora all’architettura, da cui prende avvio (árcho) il costruire, di pensarsi in base all’essenza dell’abitare, che non è tanto desumibile dalle concezioni delle case o dalla distribuzione degli spazi, quanto dal vario intrecciarsi delle figure del tempo. Altro è infatti abitare la salvezza, altro la speranza, altro il progresso, altro la rivoluzione. La costruzione risente dell’abitazione, perché l’abitare vien prima del costruire. Si possono infatti costruire cose solo perché già si abita un tempo, la cui figura è poi la forma che ritroviamo nelle cose. Non siamo creatori, ma figli del tempo, con l’avvertenza che il tempo non è una realtà, ma una metamorfosi di figure. E ad ogni intreccio incontriamo una costruzione che in sé raccoglie alcuni fili di quella rete polinodale tessuta per noi dalle figure del tempo.